Articoli con tag USA

Quanti favori alla Russia, Mr. President…

Che fallimento il primo viaggio di Trump dopo la sua elezione a Presidente degli USA.

La sua prima tappa è stata l’Arabia Saudita e si era creata una certa attesa, viste le sue posizioni sul mondo musulmano e sulla lotta al terrorismo. A quanto pare, ha viaggiato con tutte le spese pagate dal regime saudita, compresa quelle della numerosa famigliola a seguito, e si è affrettato a firmare un accordo per la vendita di armamenti statunitensi per $110 miliardi. Nell’atteso discorso al mondo musulmano, di fronte a capi di stato di tutta la regione, ha volato bassissimo. Nessuna visione di cooperazione per combattere il terrorismo, nessun discorso visionario, come quelli che ci eravamo abituati a sentire da Obama, ma un attacco all’Iran, accusato di finanziare e alimentare il terrorismo estremista dimenticandosi (ma forse era solo ignoranza) che Isis e tutti gli altri movimenti estremisti sono sunniti e non sciiti come è l’Iran. Ci sono prove inoppugnabili che questi gruppi di pazzi sanguinari sono appoggiati proprio dall’Arabia Saudita, Qatar ed altri tra quelli che ascoltavano il discorso di Trump. L’Iran combatte (forse per motivi diversivi nostri) il  terrorismo islamico oltranzista che tanti morti ha fatto in Europa…

Ha preso schiaffetti (neanche troppo nascosti) sulla mano da parte della First Lady durante la breve visita in Israele e poi ancora a Roma dove ha incontrato papa Francesco, che lo ha accolto sorridente (come sempre) e gli ha regalato una copia della sua enciclica sul clima, oltre a parecchi sguardi con un’espressione inequivocabile sul volto.

Dopo i leader dei Paesi che incarnano alcune tra le religioni più importanti, il Presidente degli Stati Uniti ha partecipato al Summit della NATO dove, invece di affrontare i temi scottanti dell’Alleanza Atalantica a partire dai Paesi Baltici per finire all’Ucraina, ha cominciato a parlare del costo dell’organizzazione militare e della necessità di far pagare di più chi paga poco… senza tuttavia esitare a farsi notare sui social network mentre spinge via il Presidente del Montenegro facendosi largo per conquistare la prima fila ed i flash dei fotografi…   Conclusione a Taormina per il G7 scenografato all’italiana, dove si è consumato lo strappo con la Germania che ha portato alla cancellazione delle conferenze stampa di Trump e della Merkel. In interviste ai media tedeschi, senza mai nominare il neo-Presidente, la cancelliera tedesca ha definito inaffidabile il governo statunitense a guida Trump, invocando un’Unione Europea autosufficiente anche dal punto di vista militare, mentre il nostro Donald continuava ad esigere più soldi dalla Germania per la NATO.

Insomma un vero disastro sotto ogni punto di vista, con il solo Putin a festeggiare per l’indebolimento della NATO che tanto gli dava fastidio alle frontiere e per lo strappo degli USA con i suoi alleati storici. A Parigi subito dopo il G7, Macron ha annunciato, durante una conferenza stampa congiunta con Vladimir Putin (il Grande Escluso dal G7), maggior cooperazione tra Francia e Russia contro il terrorismo.

Non so a cosa porterà l’inchiesta sul Russiagate che tante teste ha già fatto rotolare, ma non posso non notare come Donald Trump stia facendo grandi favori alla Russia, sia in termini di influenza geo-politica che militari.

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La triste storia di Jo Cox dopo il Brexit

BrexitChe tristezza ripensare a Jo Cox e il suo inutile sacrificio in nome di un’anacronistico isolazionismo. A leggere i fatti dopo il Brexit, non si può che notare come lo psicopatico ultra-nazionalista che le ha sparato in mezzo alla strada, in un Paese in cui nemmeno i poliziotti sono armati, fosse un drammatico campanello d’allarme di quanto si stava compiendo. I tabloid e i media spazzatura (televisioni incluse) che proliferano così bene nel Regno Unito davano da troppo tempo spazio e sostegno agli istinti razzisti e xenofobi della popolazione più povera dei territori del Nord dell’Inghilterra, forti del sostegno reale e dei Lord. Il potere diretto ed occulto di condizionamento della svolta populista ha alimentato odio ed esclusione  fino al punto si segnare il destino stesso del Regno.

I giovani, abituati alla prepotenza dei mezzi di comunicazione tanto da eleggere internet come mezzo principale (e spesso unico) di informazione hanno votato in stragrande maggioranza (75%) di restare in Europa, rifiutando la propaganda populista e conservatrice, ma le generazioni successive li hanno obbligati ad uscire dall’Europa dopo 40 anni di lavori di integrazione comunitaria. Un ragazzo, apparentemente sui 30 anni, intervistato dal Guardian ha sintetizzato così: ” Com’è mai possibile che un 90enne  abbia maggior peso di un giovane sulle scelte che decideranno il futuro? Noi siamo Europei, cittadini di un mondo senza più frontiere e non ci riconosciamo nell’isolamento in cui ci hanno relegato”.

Così la pensa anche la Scozia e anche l’Irlanda del Nord, che minacciano un referendum per staccarsi dal Regno Unito, chiedendo a Bruxelles di restare nella comunità europea, visto che così ha votato la stragrande maggioranza dei loro cittadini.

Che tristezza anche il sempre crescente numero (oltre i 3 milioni secondo gli ultimi rilevamenti) di firme che chiedono di ripetere il referendum, sulla base del ristretto margine  con cui è stato scelto il Brexit in base ai dati di affluenza alle urne per una decisione tanto importante. “E’ la democrazia, baby”, si potrebbe rispondere. Oramai è troppo tardi (credo) a meno di clamorose sconfessioni di quello che si vanta di essere il sistema democratico migliore al mondo. La volontà di una seconda opportunità di votare fa indubbiamente tenerezza, ma suscita anche parecchia apprensione per il pericolosissimo precedente che costituirebbe, colpendo al cuore la credibilità stessa delle consultazioni popolari future.

Tuttavia, se la metà dei cittadini di Sua Maestà piange sul latte versato e si dilania per capire come è stato possibile quanto è successo, c’è anche un’altra metà della popolazione che invece celebra il giorno dell’indipendenza (curioso il parallelo con quello degli USA che fu, appunto, indipendenza dal Regno Unito) e spocchiosamente se la prende comoda nel togliere il disturbo, interessata, come sempre,  a trarre il massimo vantaggio a scapito di tutto e di tutti i cittadini dell’Unione Europea e delle conseguenze che il Brexit avrà su di loro. C’è chi fa notare, credo a ragione alla luce dei risultati, che gli inglesi non sino mai stati europeisti convinti, non sono mai entrati nella moneta unica ed hanno sempre visto (quantomeno dalla signora Thatcher in poi) l’Unione come un’opportunità per fare affari, piazzando prodotti e servizi.

Non sarà un divorzio consensuale ha tuonato la presidenza europea, echeggiando i commenti tedeschi, facendo scattare tutti i meccanismi per contrastare i piani britannici, consci degli effetti recessivi che il Brexit porterà in eredità alla stitica economia comunitaria, ma anche colpiti dal tradimento del governo Cameron, che aveva incassato parecchi favori nel piano concordato con i leader europei proprio per scongiurare l’uscita del Regno Unito. Per noi europei sarà duro sostenere la fragilissima ripresa economica dopo tanti anni di crisi e dovremo lottare per tornare in recessione. Gli inglesi la pagheranno duramente su tanti fronti, compresa la coscienza ed il relativo consenso popolare e i confini interni, oltre all’effetto deprimente sull’economia reale e sulla credibilità finanziaria a livello globale.

I media cancellano Jo Cox dopo aver contribuito ad ucciderla e gli esperti di comunicazione cominciano ad analizzare il potere di condizionamento che hanno dimostrato di avere sulla popolazione britannica, specialmente quella più povera e meno educata. I giovani inglesi che non avevano scelto di entrare in Europa e non hanno neanche scelto di uscirne, urlano la loro rabbia e la loro frustrazione e raccolgono forme ex-post, la Scozia batte i pugni sul tavolo buono e i banchieri chiudono i forzieri.

Sarà pure la democrazia, ma è anche il sintomo pericolosissimo della decadenza in cui versa la nostra società post-industriale, che sempre più somiglia a quella del Big Brother della letteratura inglese.

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Il petrolio, la FED e la rivolta dei mercati

a1Nel tentativo di cercare di capire quello che sta succedendo nella finanza mondiale credo che l’inizio del 2016 rappresenti un caso emblematico. Il crollo degli indici in giro per il mondo a quanto pare era solo uno smaltimento (parziale, temo) della bolla scoppiata quando la Federal Reserve ha messo in pratica la tanto annunciata inversione di tendenza nella politica monetaria degli USA, alzando i tassi di interesse, fermi allo zero dal 2008.

Una moneta che costa di più (in particolare per un’economia globalizzata come quella USA) comporta una difficoltà crescente a competere sui mercati internazionali gravando di maggiori costi le esportazioni statunitensi e costi fissi più gravosi sui bilanci consolidati delle imprese. Questo riduce la capacità individuali di generare profitti, riducendo in maniera conseguente il valore delle azioni sul mercato. Wall Street ha quindi vissuto un riallineamento, riportando gli indici alla realtà.

Questo provvedimento, che in qualche maniera ha certificato la convinzione della banca centrale USA sulla solidità della ripresa della maggiore economia mondiale, è stato tuttavia adottato durante una durissima guerra senza esclusioni di colpi sul petrolio, il cui prezzo è crollato sotto i $30 al barile (nel 2014 era a $104). Il rientro dell’Iran nella comunità internazionale ha infatti aperto scenari molto diversi sulla disponibilità di olio nero sul mercato e l’Arabia Saudita (ancora il maggior produttore mondiale) non è certamente contenta. I due nemici storici, sciiti e sunniti, hanno quindi ripreso uno scontro secolare su molti terreni, compreso quello militare. Nel frattempo, gli USA hanno consolidato la propria indipendenza energetica (grazie alla famigerata tecnica di estrazione chiamata “fraking”)  in contemporanea con il rallentamento della Cina, la seconda economia mondiale. Questo, ovviamente, riduce grandemente la domanda di petrolio sul mercato. Con sempre maggior disponibilità e una domanda molto ridotta rispetto al passato, il prezzo della materia prima è crollato.

Molte aziende del settore (nella stragrande maggioranza nordamericane), già indebitate per l’avvento del fracking, che ha grandi costi di estrazione, non hanno retto e sono fallite e molte altre sono a forte rischio di fallimento se il petrolio non riuscirà a riacquistare una quotazione migliore nei prossimi mesi. Anche l’OPEC è scesa in campo cercando di favorire  un accordo generalizzato per il taglio della produzione (che per i produttori significa rinunciare a profitti significativi) che pare l’unica arma per cercare di contenere il calo del prezzo al barile.

Meno profitti e maggior costo del denaro: una bestemmia per le aziende quotate a Wall Street, abituate oramai ai soldi facili.

Il crollo dei mercati che ha caratterizzato l’inizio del 2016 è quindi stato un aggiustamento dei mercati alla nuova realtà economica globale. Un aggiustamento ruvido però, avvenuto dopo una rivolta dei mercati contro la Federal Reserve e le banche centrali in generale. Un aggiustamento che pesa parecchio sui risparmi della gente di tutto il mondo, comprese le economie che non sono ancora uscite dall’ultima crisi, come l’Italia e l’Europa in generale.

La politica della Yellen è dovuta e non oltre procrastinabile. L’economia degli Stati Uniti è sempre più il motore dell’economia mondiale e la ripresa è oramai consolidata. Continuare a regalare soldi è drogare il mercato, gonfiando Wall Street di profitti ingiustificati e sottraendo risorse federali che possono essere meglio investite sull’economia reale.  Credo che fino a primavera dovremo abituarci ad  un’altalena insopportabile (che i tecnici chiamano “volatilità”) tra minacce apocalittiche e straordinarie riprese, legate alle oscillazioni del prezzo del petrolio.

Per il momento, questa rivolta non riguarda il Presidente della Banca Centrale Europa, Mario Draghi, che ha rincuorato i mercati, promettendo maggiori elargizioni di denaro pubblico, e “tutto quello che sarà necessario”, per far uscire l’economia europea dalla crisi. Vedremo adesso, a  Marzo quello che succederà.

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Riflessioni su ISIS e la sua distruzione

ss“Follow the money trail”, segui la traccia dei soldi: così si è sempre detto in casi come quello della strage di Parigi.

Seguendo l’esercizio mi sono chiesto: “ma quante fabbriche di armi ci sono in Siria?”. Nessuna. Quindi le armi usate dall’ISIS vengono conquistate sul terreno di battaglia (comprese le defezioni di massa dei “ribelli siriani” addestrati ed armati dalle forze occidentali)  oppure vengono acquistate sul mercato nero (come nel caso delle mille guerre lorde di sangue che si sono e si stanno combattendo in Africa, così come in tutti i conflitti armati del pianeta, dall’Ucraina all’Afghanistan, visto che ufficialmente nessuna nazione è in guerra con un’altra. Neanche Israele e Palestina sono ufficialmente in guerra anche se il numero delle vittime non smette di salire.

Bisogna quindi colpire violentemente il traffico di armi e nello stesso tempo interrompere ogni finanziamento estero, mettendo da parte ogni interesse particolare. Per primo il regime di Hassad, erede al trono del lavoro del padre, che aveva creato uno stato senza debiti (con nessuno, neanche il FMI), in cui le donne hanno gli stessi diritti degli uomini, e la Sharia è considerata incostituzionale. Pendono come macigni sul suo capo le stragi perpetrate durante la cosiddetta “Primavera Araba”, compreso quella con il gas nervino contro i curdi, se non ricordo male, ma questo dovrà essere accertato dal consesso internazionale, Russia ed Iran compresi, dopo che il cancro chiamato ISIS sarà estirpato.

Colpire le fonti di finanziamento oltre che il reperimento delle armi sarebbe già sferrare un bel colpo, ma restano le capacità di autofinanziamento: essenzialmente per il petrolio di cui la Siria e il nord dell’Iraq sono ricchi. Si Stima che la vendita dei barili (sempre sul mercato nero) varrebbe circa $2 milioni al giorno.  In proporzioni molto inferiori un’altra fonte di ricavi è il mercato (nero) dell’arte di cui la Siria è ricca (ndr – per fortuna, le opere distrutte in diretta televisiva nei musei erano copie in gesso: gli originali sono a Damasco, che è ancora sotto il controllo di Hassad). La zona più importante per la produzione di petrolio è quella di Mosul, la seconda città irachena, caduta sotto il controllo del califfato lo scorso giugno. E’ quindi priorità militare la liberazione di Mosul, a cui le forze curde stanno lavorando con grande sacrificio e successo.

Liberare Mosul e riprendere subito il controllo della principale fonte interna di finanziamento e di ogni altra a seguire deve essere la priorità perché, senza più possibilità di sostenimento il califfato islamico imploderà, sotto gli attacchi militari.

Putin ha sbandierato alle TV di mezzo mondo i nominativi dei finanziatori privati dell’ISIS, inclusi quelli appartenenti a Paesi del G-20 (pensate un po’: le vittime finanziavano i carnefici…). Si ha quindi già una traccia su cui lavorare per reprimere ed interrompere i finanziamenti esteri, facendo presente a Qatar, Arabia Saudita ed Emirati che ogni supporto su questo fronte è oltremodo gradito ed atteso. Credo inoltre che un’esemplare punizione per i traditori che finanziano il nemico sarebbe dovuta quantomeno ai famigliari di tutte le vittime innocenti che questi criminali invasati hanno fatto finora.

Per il mercato nero delle armi, la situazione è (ovviamente) complessa. Armi assemblate in Pakistan o in Afghanistan, perfette copie degli originali possono costare molto meno, ma c’è da scommettere che le grandi multinazionali del settore abbiano fatto e stiano facendo affari d’oro con i loro prodotti per la guerra e la logistica e bisogna essere chiari nel far capire che la loro collaborazione è quantomeno altrettanto attesa e gradita in un momento in cui… si cerca di distruggere un loro cliente.

Tagliare le fonti di finanziamento estero e interrompere il flusso di armamenti sono passi vitali per una vittoria militare.

Gli USA e la Russia però ancora non si parlano in Siria mentre continuano a tirare bombe dall’aria e dal mare sul nord del paese occupato dal califfato (anche se trapela qualche segnale di disgelo), mentre la Francia informa preventivamente entrambi quando va a sganciare le sue. Sembra che adesso non ci si sbagli più a bombardare i ribelli siriani invece dell’ISIS o che si mandino rifornimenti alla fazione sbagliata. Si sta formando una coalizione internazionale, che mi auguro sia globale, per annientare un nemico che ha dimostrato un disprezzo inumano per la vita.

Se questo avverrà, ISIS non avrà scampo, ma ci rimarrà comunque il disgusto per il razzismo ideologico e religioso di quanto sentito in questi giorni, da parte di tutti coloro che spingono ad una guerra di religione, nella loro ottusa follia, diffondendo paura, facendo il gioco dei terroristi.

I “foreign fighters” che tornano in Europa per spargere morte e dolore tra la gente dove sono  nati e vissuti sono “anime morte”, come le ha definite il marito di una delle vittime di Parigi, con cui ci dovremo confrontare, snidandoli con l’aiuto delle comunità islamiche in Europa e non facendo una guerra santa contro i mussulmani come vorrebbe il nemico. Questo lo capisce anche un bambino, ma forse a Belpietro e a tanti razzisti in Italia e nel mondo bisognerebbe spiegarglielo.

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La FED alimenta la paura sui mercati

1Non posso esimermi da scrivere un altro articolo sull’economia (o forse dovrei parlare di finanza?) dopo la decisione della FED, la Banca centrale USA, di non alzare i tassi di interesse che negli Stati Uniti d’America  sono praticamente a zero (0-0,25) da quasi 10 anni, da quando la misura fu introdotto per contrastare la Grande Crisi del 2008.

Fornire denaro “fresco” al mercato per allentare la morsa del declino finanziario è una forma di droga che viene fornita ogni giorno agli operatori e alle banche e, nonostante il contrasto degli integralisti, è una misura ampiamente adottata (si veda, solo a titolo di esempio, il Quantitative Easing che la Banca Centrale Europea ha annunciato continuerà fornire al mercato europeo che ancora si dibatte nella via di uscita dalla crisi) e che, stando ai risultati dell’economia reale (disoccupazione, crescita delle imprese, aumento dei salari, ecc.) qui negli USA ha funzionato benissimo, riportando il Paese a livelli pre-crisi oramai conclamati.

Eppure la FED ha deciso di rimandare ancora una volta, nonostante la signora Yellen annunci un rialzo dei tassi di interesse da anni oramai. Perché? Vediamo punto per punto in maniera da cercare di trarne qualche conclusione:

  1. l’ulteriore procrastinare della FED ha lanciato un messaggio preoccupante ai mercati mondiali (e non solo quello USA) sullo stato di salute degli Stati Uniti, tanto da necessitare ancora un po’ di “droga”, come quando si dibatteva nella morsa della crisi. In un momento di grande preoccupazione per l’economia mondiale, con il tracollo delle economie emergenti, compresa la Cina che ha “tirato il carretto” negli ultimi 10 anni mentre il mondo occidentale annaspava, questo certamente peggiora ulteriormente le cose. Guardate la volatilità sui mercati! Una maggiore incertezza significa minore crescita. Un aumento dello 0,25% (come era stato preventivato) non sarebbe stato molto e avrebbe calmato l’ansietà.
  2. La FED ha indicato proprio le incertezze del mercato come uno dei motivi del mancato rialzo dei tassi. Tuttavia i mercati sono un luogo dove si trattano prezzi e merci (le azioni in questo caso), il punto finale della filiera economica e finanziaria. Come mai l’istituzione governo del mercato USA si fa guidare invece di dare una direzione ai mercati stessi? Per di più l’incertezza dei mercati era derivata dalle crescenti difficoltà della Cina e delle economie emergenti (o dovrei parlare di finanza?) e non quella a stelle e strisce che invece corre come un treno (l’economia reale!). Per di più, se il declino della seconda economia mondiale era sfuggito alla FED in precedenza allora siamo veramente nei guai.
  3. Una delle motivazioni addotte è stata l’inflazione, che resta ancora sotto il livello atteso dalla Banca Centrale (manca uno 0,1% al 2% atteso!), ma è oramai chiaro che le metriche usate dal governo americano per l’inflazione non si riflettono affatto sui prezzi dei supermercati. Quanti hanno visto un ribasso sui carburanti nonostante il calo del prezzo del greggio? Ovviamente non abbiamo un’inflazione come negli anni ’70, ma l’aumento di prezzi è evidente a tutti, negli USA (così come in Italia).
  4. E’ chiaro che il tasso di disoccupazione non è importante per la FED, nonostante fosse uno dei parametri chiave. Il 5.1% di disoccupazione misurato fino al mese di agosto scorso è sicuramente migliore del 6,5% indicato a  suo tempo come il livello sotto il quale si sarebbe alzato il tasso di interesse. Va tuttavia detto che la percentuale non tiene conto di tutti quelli che hanno rinunciato a cercare lavoro.
  5. Gli interessi bassi erano intesi a stimolare la gente ad investire, ma io, come tanti altri,  cerco di risparmiare fino all’ultimo centesimo in questo periodo pieno di incertezze e nubi all’orizzonte. La decisione della FED mi costringe sempre più in questa direzione, visto che neanche la Banca Centrale USA ha fiducia nella propria economia al punto da smettere di drogarla.
  6. il debito pubblico USA è oramai a livelli di vera insostenibilità, dopo tutti gli sforzi fatti per stimolare l’economia a uscire dalla Grande Crisi. Un dollaro forte avrebbe aiutato il Paese a controllare la crescita di un debito pubblico che porta rischi gravissimi se fuori controllo. La decisione della FED ha invece indebolito il dollaro, portando ulteriori elementi di preoccupazione per i mesi a seguire.
  7. La credibilità della FED non è l’unica cosa che è uscito incrinata dall’attesissima riunione di ieri (“ma sanno che stanno facendo?” “hanno dati diversi da quelli dei mercati?” “è in arrivo un’altra crisi?”sono alcuni dei commenti che si possono leggere in questi giorni e di cui ho già tratto qui). Si è incrinata la fiducia nella capacità degli USA di prendere per mano l’economia mondiale e questo è un vero disastro.

Vedremo nei prossimi giorni come tutto questo andrà a finire.

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Riflessioni sull’economia mondiale

1E’ pericoloso parlare di economia in questi giorni caratterizzati dall’isteria collettiva e dalla consequente volatilità globale.

La crisi del secondo motore dell’economia mondiale, la Cina che è ancora basata sulla produzione industriale del Paese anche se in graduale apertura incondizionata ai mercati  è sicuramente una cattiva notizia per il mondo che contava sull’imponente volume d’affari, in vertiginosa crescita negli ultimi dieci anni, ma non era inattesa, anche se rivelata a sorpresa dalla clamorosa svalutazione della moneta cinese prima che i dati sulla produzione industriale cinese affossassero i mercati mondiali, dando inizio ad una “correzione” dolorosissima che sembra continuare oramai oltre le due settimane. Pechino oltretutto si sta ancora affacciando alla finanza mondiale e flirta da tempo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per un posto nel paniere delle monete di riferimento. In cambio sono state richieste riforme (o “misure correttive” come le ha definite Pechino) per garantire una sempre maggiore liberalizzazione degli scambi finanziari e quando la svalutazione dello yuan è stata annunciata, l’istituto di Christine Lagarde è stato esplicito nelle sue congratulazioni, mentre i mercati si schiantavano per la prima volta l’11 agosto.

Gli Stati Uniti, che crescono addirittura al di la delle previsioni e sono riusciti a portare il tasso di disoccupazione a livelli endemici sul mercato, sono l’unica economia reale in grado di reggere il peso dei mercati mondiali, seguiti a ruota dall’Europa che tuttavia non ha ancora consolidato la sua agognata ripresa dall’ultima crisi. ll problema tuttavia è che il valore della moneta americana non rispetta la situazione reale ed ha un quotazione troppo bassa rispetto a quanto dovrebbe essere per una valuta che rappresenta un’economia florida come quella USA, in un contesto deprimente come quello del resto del pianeta. Si è fatti di tutto per mantenere il dollaro il più basso possibile per rilanciare l’economia, immettendo grandi quantitativi di denaro sul mercato e i progressi sono evidenti, visto lo stato di salute dell’economia USA. Tuttavia, la Federal Reserve ha cautamente ventilato l’intenzione di alzare il tasso d’interesse, per la prima volta da dieci anni, a partire proprio dal mese di Settembre e questo porterà a scoprire le carte per un economia che non potrà più contare sulle facilitazioni della banca centrale: sarà in grado di reggersi da sola?

Anche questo però è un fatto noto: è più di un anno che la FED ne parla, prima come ipotesi, poi come dato di fatto e ancora adesso si dibatte sul quando fare l’intervento dovuto ed io mi auguro che non sia procrastinato troppo. Altro che soldi facili: è così che crescono le bolle speculative e sappiamo tutti i danni che queste comportano. Tuttavia sono molti quelli che strillano le proprie angosce, per paura che l’intervento faccia decrescere ancora il valore delle azioni in un mercato già in grande sofferenza, ma non sono pochi quelli che credono o sperano che questo sia già un ri-aggiustamento del mercato al nuovo valore, anticipando l’aumento dei tassi di settembre o dei mesi successivi, prima della fine del 2015.

La crisi cinese ha toccato il fondo? La FED alzerà i tassi di interesse? Non si possono avere certezze in questo mercato che apre ancora solo per dare spettacolo, visto che le contrattazioni vanno avanti oramai 24 ore al giorno in maniera assolutamente automatizzata. Il dato di fatto è che mondo crescerà molto più lentamente (e forse non è una cosa negativa, per molti aspetti) e l’unica nazione che ha avuto la fortuna di avere una guida lungimirante e ispirata nell’affrontare la Grande Depressione del 2008 sembra destinata a prendere ancora una volta per mano il pianeta. Viste le alternative, mi auguro che lo faccia con decisione e rispetto.

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L’esodo biblico dei migranti in tutto il mondo

1“Beati i monocoli nella terra dei ciechi”. Così, forse, commenteranno in futuro i nostri pronipoti quando parleranno degli esodi biblici che caratterizzano il mondo (eh già, non solo l’Italia, ditelo a Salvini) in questo contingente storico.

Il fenomeno è drammatico: milioni di persone si spostano dal suolo natio alla ricerca di una terra promessa che spesso non trovano, perché, se riescono a sopravvivere, vengono respinti o rinchiusi in lager inaccettabili; solo i più fortunati riescono ad arrivare alla meta, accettando i lavori più umili per sopravvivere, accettando il razzismo che circonda chi è diverso. Una vignetta di qualche tempo fa raffigurava una profuga bambina che, a chi le chiedeva “Come mai accettate di fare questo? Non lo sapete che probabilmente incontrerete la morte?”, rispondeva: “Per quel “probabilmente”, lasciando intendere il livello inumano di disperazione che permea il fenomeno.

In Sud Africa, Paese tra i più colpiti dalle migrazioni, vi sono quasi 2.5 milioni di profughi, e cioè il 4,5% dell’intera popolazione (come se in Italia ci fossero 2.5 milioni di profughi invece dei 900,000 accertati) e scontri violentissimi si sono verificati a più riprese. Negli USA il fenomeno è talmente (e storicamente) evidente da indurre qualche idiota (ndr – Donal Trump) a ipotizzare un muro che isoli il Paese dal Messico e dagli altri Paesi del Centro America, mentre in Iran la popolazione dei rifugiati dall’Afghanistan supera abbondantemente il milione e mezzo di persone.

In termini di popolazione netta di migranti (calcolata dalla World Bank sul numero totale, meno gli emigranti e meno la popolazione anagraficamente accertata) numeri cambiano e il Sud Africa vede un decremento di centomila persone (pensate a quanti se ne vanno…),  gli USA superano i 5 milioni di persone, il Canada raggiunge il milione, mentre dalla Cina se ne vanno oltre un milione e mezzo di persone in più di quante arrivino. In Europa, la Germania ospita più di 500,000 migranti, la Francia 650,000 e la nostra Italia quasi 900,000.

E’ un fenomeno globale impressionante che non potrà che aggravarsi nei prossimi anni. Come il degrado del pianeta che desta (finalmente) la preoccupazione di tutto il mondo, il fenomeno legato all’esodo biblico delle popolazioni che fuggono dalla povertà più assoluta, dalla guerra e dalle repressioni politiche e religiose è un vero pericolo per la stabilità della nostra società e di quelle future.

Per evitarmi i conati di vomito che mi provocano, evito di parlare del bieco e schifoso razzismo che il fenomeno genera dappertutto, quando le popolazioni più ricche si trovano alla porta l’orda inarrestabile, ma non posso che esprimere il ribrezzo che gente come Trump, i nazisti tedeschi e i nostri miserabili padani mi provocano. Visto che mi trovo a parlare di persone spregevoli,  credo che i criminali che se ne approfittano, come gli “scafisti” debbano essere puniti in maniera esemplare per il genocidio che provocano per profitto (visto che Saddam lo abbiamo giustiziato per questo un pensierino alla pena capitale per questa categoria non lo f nessuno?) così come quelli che lo fanno a fini elettorali dovrebbero essere estromessi da qualsiasi ruolo pubblico.

L’unica maniera per affrontare il problema è intervenire sulle disparità che esistono tra il terzo (e quarto) mondo e gli altri, sviluppando le economie più deboli attraverso interventi prospettici mirati e concertati e combattere l’unica guerra giusta: quella alla fame, che ancora oggi, nel pieno della nostra avanzatissima società tecnologica, uccide ogni giorno oltre 40,000 persone, di cui il 75% bambini al di sotto dei cinque anni d’età. In termini assoluti, si calcola che circa 800 milioni di persone nel mondo soffrano per fame e malnutrizione. Spesso, le popolazioni più povere necessitano di minime risorse per riuscire a coltivare sufficienti prodotti commestibili e diventare autosufficienti. Queste risorse possono essere: semi di buona qualità, attrezzi agricoli appropriati e l’accesso all’acqua. Minimi miglioramenti delle tecniche agricole e dei sistemi di conservazione dei cibi apporterebbero ulteriore aiuto, così come l’istruzione, visto che è comprovato che persone istruite riescono più facilmente ad uscire dal ciclo di povertà che causa la fame. Per questo, ad esempio, la distruzione sistematica dei prodotti alimentari occidentali che Putin ha ordinato come rappresaglia contro l’embargo internazionale causato dalla crisi ucraina è uno schiaffo inaccettabile contro la fame nel mondo.

Fino a che ignoreremo questo, non avremo il diritto di parola quando i nostri nipoti studieranno sui libri di storia quanto sta succedendo.

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Dopo di Obama il diluvio?

1Il dopo Obama sembra sempre più incerto per gli USA. S0no lontani i tempi degli stadi stracolmi di gente per ascoltare i discorsi ispirati dell’allora senatore dell’Illinois che facevano sognare, spingendo al voto le comunità afro-americane e latine e accendendo nuovi entusiasmi tra i giovani.

E’ vero che manca ancora un anno alle elezioni e un nuovo cavallo può ancora presentarsi, ma sarebbe costretto a correre una corsa partendo in ritardo rispetto agli altri contendenti al posto di guida della superpotenza globale. Negli ultimi giorni si parla di Joe Biden, il vice di Obama, l’uomo del trattato con l’Iran e francamente mi auguro vivamente che sia vero, che riescano a convincerlo, visto la tristissima pochezza dei candidati ufficiali in entrambi gli schieramenti.

Diamo uno sguardo, cominciando dai Repubblicani, gli sfidanti, che presentano una truppa variegata e variopinta ai nastri di partenza con 17 pretendenti al titolo. Tra questi, Jeb Bush, l’ennesimo rampollo della dinastia, fratello di quel George W. Bush che tanto imbarazzo provoca ancora oggi per i danni provocati assieme al suo vice Dick Cheney in tutto il mondo e non solo negli USA durante i suoi due disastrosi mandati presidenziali. Jeb parrebbe essere il fratello più intelligente, ma come ha rimarcato un noto commentatore satirico, “si parla di intelligenza in termini della famiglia Bush, quindi niente di che”. Jeb Bush era il Governatore della Florida al tempo dello storico ricalcolo-truffa dei voti di quello stato che portò un giudice ad insediare il fratello George come Presidente per il secondo mandato. Dato per vincente predestinato all’inizio della campagna elettorale, Jeb sta invece miseramente affondando a causa di un carattere apparentemente remissivo e timido, una serie infinita di gaffe (deve essere nel DNA di quella famiglia) e la presenza in campo di Donald Trump: i sondaggi non lo danno più neanche tra i primi tre (per fortuna).

La vera sorpresa è stato appunto Donald Trump, il multimiliardario (per eredità da parte del padre) di New York. Tronfio, spocchioso, aggressivo, razzista, viziato e decisamente scarso anche sugli argomenti più semplici, ha rivelato solo un punto del suo programma: la costruzione di un muro tra gli USA e il Messico per impedire ai messicani di “rubarci il lavoro e stuprare le nostre donne”. Visto il livello di cazzate che il signor Trump riesce ad inanellare ad ogni sua uscita, era dato come immediato perdente, ma lui è troppo ricco e sta investendo una quantità impressionante di denaro sulla sua elezione, al punto da sostenere che se non vincesse le primarie per il Partito Repubblicano, sarebbe pronto a fondarne uno nuovo e correre per conto suo (vi ricorda qualcuno?). Insomma Donald vuole talmente tanto essere il Presidente degli USA al punto di… comprarsi il posto. Dopo aver offeso i messicani trattandoli da ladri e stupratori, è stato il turno delle donne quando rispondendo ad una domanda di una giornalista in diretta televisiva ha detto chiesi vedeva come le uscisse sangue dagli occhi e dalla sua “cosina” e poi i cinesi che dovrebbero essere puniti con l’isolamento per la crisi finanziaria che hanno provocato, i neri che non vogliono lavorare e spacciano droga e via discorrendo. Dopo queste sparate si diceva che nessuno avrebbe votato per lui, tantomeno le categorie/etnie che aveva offeso, ma il potere dei soldi è forte, sopratutto qui negli USA e i sondaggi lo danno saldamente in testa con il 30% delle preferenze, nella pletora di candidati repubblicani. Il termine imbarazzante trova con questo ignobile personaggio nuove definizioni, facendo sembrare George Bush (e il nostro Caimano nazionale) come un genio. L’unico che ne potrebbe trarre ispirazione è forse Salvini, se qualcuno gli spiega cosa dice ed il solo pensiero di aver Donald Trump nella stanza dei bottoni, fa raggelare il sangue.

Chi gli tiene (un po’) testa è Ben Carson, un neurochirurgo afro-americano in pensione, originario della Carolina del Sud che fa della critica al Presidente Obama (in particolare sulla riforma sanitaria, ovviamente) e della sua posizione di outsider anti-establishment i suoi punti di forza. Tra gli altri (che evito di elencare perché sono veramente tanti, tra Cristiani-risorti, neo-conservatori seguaci di Dick Cheney e Sarah Palin, ultra ortodossi e fascisti), vale la pena nominare la signora Carly Fiorina, ex Amministratore Delegato della Hewlett-Packard, che almeno parla bene in pubblico, antagonizzando con Hillary Clinton ad ogni occasione e invocando una maggiore presenza militare americana nel mondo per garantire la sicurezza interna (!).

Dall’altro schieramento, Hillary Clinton, data anche questa volta come sicura vincente dopo la cocente delusione subita con Obama, invece annaspa tra mille scandaletti (roba da niente per noi italiani, come l’aver usato un server privato per mandare le sue mail quando era Segretario di Stato dell’amministrazione Obama, che invece qui prendono seriamente) e non è amata per il suo fare dispotico e il falso sorriso che sfoggia in televisione. Tuttavia, al contrario dei suoi compatrioti repubblicani, parla di cose vere: cambiamento climatico, riforma delle pensioni, politica estera, ecc., spalleggiata dal suo Bill e dalla fondazione Clinton, una vera e propria macchina da guerra che hanno creato per raccogliere i fondi. Tuttavia agli stessi democratici Hillary non piace proprio e tutti i sondaggi la danno testa a testa con la vera sorpresa (finora) della campagna elettorale: Bernie Sanders. Socialista (udite udite! si è definito lui stesso un “socialist Democrat”), senatore della Repubblica, è il paladino della sinistra e vicino alle posizioni di Obama. I suoi punti sono le diseguaglianze (drammatiche) tra ricchi e poveri negli USA, il salario minimo, l’ambiente, i debiti che le famiglie sono costrette a fare per pagare il college ai figli, ecc. Deve combattere contro gli stessi democratici, che alla parola socialismo si irrigidiscono (quasi) come i colleghi repubblicani, ma raccoglie valanghe di consensi nel Nord-Est del Paese (il nodo per lui saranno stati del Sud Ovest), al punto da essere a pari con la Clinton in tutti i sondaggi, con un deciso vantaggio nelle aree metropolitane come New York.  L’incertezza sul candidato che potrà raccogliere la bandiera democratica da Obama, sta però convincendo l’attuale Vice Presidente, Joe Biden a scendere in campo e personalmente mi auguro che lo faccia al più presto perché, anche se Bernie Sanders sarebbe un’altra svolta epocale per gli USA dopo il doppio mandato Obama, temo che si scontrerebbe con i fantasmi del passato maccartista favorendo uno qualsiasi del terribile raggruppamento repubblicano. Joel Biden è l’uomo del trattato con l’Iran sul nucleare e conosce perfettamente l’indirizzo seguito dagli Stati Uniti fino ad oggi e potrebbe dare la necessaria continuità con quanto fatto fino ad oggi dal Presidente Obama.

In questi due mandati, Barack Hussein Obama, ha dimostrato di mantenere la sua parola, facendo riforme considerate impossibili, come quella sanitaria che garantisce a tutti, anche ai totalmente indigenti, le cure del sistema sanitario americano, quella sull’immigrazione, sui salari minimi, sulla parità di diritto per le coppie omosessuali e la riforma di Wall Street. Non è intervenuto in nessun conflitto o generato guerre, ha stretto uno storico accordo con l’Iran sul nucleare ed ha messo fine all’odioso embargo a Cuba. Avere qualcuno che sia capace di continuare in questa direzione sarebbe un bene per l’umanità intera e non sol0 per gli USA.

 

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Signori, la nuova crisi è servita (ovvero: il crack dei mercati spiegato ai non addetti ai lavori)

1Quanto mi da fastidio aver avuto ragione!

Il 12 agosto ho scritto sulla svalutazione della moneta cinese, decisa a tavolino dal Partito Unico e annunciata a sorpresa, con il solo FMI ad applaudire in nome di una libertà di fluttuazione che Pechino non sa neanche cosa sia. Si sentiva una puzza insopportabile, ma i giorni successivi alla batosta subita dai mercati era seguito un timido recupero che mi aveva fato sperare. I miei timori erano invece (purtroppo) fondatissimi: signori ecco a voi il crack del mercato globale.

Sfido qualsiasi economista a spiegarlo. E’ sufficiente il rallentamento (le previsioni per l’economia cinese, ora riviste al ribasso sono pur sempre di una crescita del 7%) della seconda economia più grande al mondo per giustificare il doloroso tracollo che i risparmiatori e gli investitori di tutto ill mondo hanno subìto? E’ forse uno strano segnale di mancanza di fiducia nell’economia USA che tira come un treno, sia in termini di produzione, di consumi che di tasso di disoccupazione, tanto da indurre la FED a rialzare i tassi di interesse entro il 2015? E’ forse il prezzo del petrolio che è ai suoi minimi termini, vista la sovrabbondante offerta sui mercati dopo lo sviluppo del cosiddetto “fracking” (la tecnica di estrazione dell’olio nero dalle rocce, che ha portato gli USA all’indipendenza energetica nonostante l’altissimo prezzo in termini di inquinamento delle falde acquifere in California)? Sono mesi che quelle che Enrico Mattei definì le “sette sorelle” e cioè i produttori di petrolio, in maggioranza statunitensi, strillano contro un dollaro forte mentre il prezzo della materia prima cala, anche a causa delle scelte fatte in passato e non mi stupirei affatto se questi “signori” avessero avuto un ruolo nella catastrofe economica mondiale. Per loro il profitto viene prima di tutto, anche del futuro del pianeta stesso, ma non ci sono prove che l’ondata di panico che ha investito tutti i mercati mondiali possa essere stata spalleggiata da costoro. In ogni caso, anche se l’impressionante tsunami di vendite fosse derivato da una combinazione di tutti questi fattori, (con l’aggiunta della caduta delle economie emergenti – Brasile e India in testa – che si dibattono nella recessione), una crack come quello che stiamo vivendo non potrebbe essere giustificato.

In banca, in California, dove vivo, ripetono il briefing ricevuto dalla sede centrale: sono sei anni che la borsa USA produce profitti, (non come in Italia dove perdere è oramai un esercizio di routine); è quindi un doloroso “aggiustamento del mercato”, alla ricerca di una valutazione delle azioni quotate più aderente alla realtà.  Se così fosse, sarebbe una versione extra-large di un evento ciclico che una volta toccato il fondo riporterà la situazione alla “normalità”, anche se parlare di normalità mi sembra davvero strano, perché tutto quello che sta succedendo non ha proprio niente di normale.

Vorrei tuttavia porre una domanda, dando per vera la spiegazione legata all’aggiustamento dei mercati: visto che tutto parrebbe aver avuto inizio con la politica dirigista della Cina, questo aggiustamento planetario sarebbe quindi successo comunque? Proprio adesso che la FED si appresta(va?) ad alzare i tassi di interesse dopo 10 anni di aiuti all’economia, certificandone ufficialmente l’eccellente stato di salute, il mercato USA crolla come tutti gli altri, che al contrario sono nei guai.  Questo, per quanto posso capire, significa che il mercato USA ha paura dell’azione combinata di un rallentamento globale (vedi Cina) con una drastica diminuzione degli ordini e dei prezzi delle materie prime (petrolio in testa) e l’aumento del prezzo del dollaro annunciato dalla FED. Capite? L’economia va benissimo, la disoccupazione è scesa an un livello considerato quasi endemico nel capitalismo con oltre 3 milioni di nuovi posti di lavoro  creati dall’inizio dell’anno, con stipendi in crescita del 2.4%, il settore immobiliare cresce al 5%, l’economia reale cresce del 2.5% ed il basso prezzo del petrolio dovrebbe portare benefici allo sviluppo industriale e dei servizi (a prescindere dai profili dei Signori dell’Olio Nero), ma il mercato USA crolla (oggi ha perso di nuovo il 3.6%) perché nel mondo le cose non vanno altrettanto bene! Pazzesco.

Ma non abbiamo imparato niente dalle crisi precedenti? Non esistono strumenti finanziari per controbattere gli eventi? Perché la Banca Popolare Cinese non diminuisce le riserve strategiche a cui sono obbligate le banche cinesi, immettendo così nuova abbondante liquidità (di cui la Cina ha un eccesso) e consentendo di investire sul mercato, oltretutto a prezzi oramai molto più bassi?

La triste realtà è che viviamo in una società globalizzata (che fa spesso rima con “sodomizzata”) in cui gli interessi degli USA sono predominanti in ogni settore, ma non sono necessariamente legati all’andamento del Paese, anzi. Le multinazionali americane fanno profitti dappertutto, legate come in una ragnatela globale alle economie locali che, se sono grosse come la Cina, fanno molto male quando cadono. Così basta uno starnuto da qualche parte nel globo che Wall Street soffre, costringendo la gente che non ha alternative per investire i propri risparmi a tifare per sempre maggiori profitti per chi è già ricchissimo, pena la catastrofe finanziaria globale. Così anche il valore del dollaro crolla, nonostante rappresenti l’unica economia mondiale che tira come un treno, e gli investitori non cercano più il biglietto verde come rifugio davanti al baratro, ma preferiscono il traballante euro, caricandolo sempre più e costringendo l’intera Unione Europea ad una competizione impari con prodotti costosi rispetto a quelli a stelle e strisce.

E chissenefrega della gente e dei loro risparmi, ma così il capitalismo (o l’odierna aberrante deviazione dello stesso) muore.

 

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La Cina, gli USA e la ripresa economica mondiale

1Fa rabbia perché accade all’inizio di una ripresa globale dalla grande crisi del 2008.

In Europa le economie più importanti traballano ancora, ma sono chi più e chi meno in ripresa economica, anche se sono tante quelle che soffrono. Atene docet. Per fortuna ha costretto a fare un po’ di pulizia e a tagliare i costi, ma i danni sociali di questa crisi finanziaria saranno calcolabili solo quando si avrà la certezza che sia passata, anche se sono in realtà inestimabili. A partire dalla disoccupazione e dalla povertà che ha generato. Ci vorranno ancora molti anni per tornare a livelli di occupazione decenti e quindi far ripartire davvero l’economia, non solo in Italia, ma in tutta l’Europa.

Negli USA, dopo ho il piacere di vivere, il tasso di disoccupazione, 5% stando ai dati della FED, è a un passo dal traguardo che  gli esperti chiamano “livello endemico” e cioè quasi un rumore di fondo nella piena occupazione. Un miraggio, per noi in Italia. Qui l’economia va a gonfie vele sotto tutti i punti di vista, tanto da far prevedere un rialzo dei tassi d’interesse dal prossimo mese di settembre. In teoria, l’aumento del prezzo del denaro, fermo praticamente a zero da anni, dovrebbe portare ad un aumento del valore della moneta e un dollaro forte non è sicuramente un’agevolazione in un’economia globalizzata, ma è assolutamente necessario per il conto economico dello Stato, visto che l’economia sembra ampiamente risanata. Si aspettano i dati di settembre ed in particolare quelli sull’occupazione e sull’andamento dei salari per poter finalmente effettuare l’aumento dei tassi.

Come gli altri mercati emergenti, la Cina non ha rispettato le attese di crescita sproporzionata che avevano caratterizzato gli anni scorsi, anche se l’economia continua a crescere (quest’anno ci si aspetta una crescita “solo” del 7%), così come il peso specifico della sua economia, la seconda al mondo dopo gli Stati Uniti d’America. Da tempo flirta con il Fondo Monetario Internazionale a cui ha chiesto un posto nel paniere di valute di riferimento, un posto nel salotto buono della banca mondiale. Non c’è da stupirsi: l’abbiamo fatto anche noi con l’euro, peraltro riuscendoci.  Gli viene chiesta una maggiore flessibilità nella libera fluttuazione dello yuan sui mercati e la Cina, improvvisamente svaluta la propria moneta non una, ma due volte (e chissà per quante altre) nei confronti del dollaro. In Cina infatti si opera in una situazione di semi-libertà anche nel campo finanziario e la Banca Popolare Cinese pubblica ogni giorno la forcella di oscillazione consentita al contrario della libera fluttuazione a cui gli altri mercati (USA in testa) fanno riferimento. La svalutazione “a tappe” è stata quindi pianificata e messa in pratica per favorire le esportazioni dei prodotti cinesi, come ufficialmente dichiarato, ma se così fosse se ne dedurrebbe che altre svalutazioni saranno necessarie per avere un benché minimo impatto: altro che il 2% iniziale e il successivo 1.6%! Forse il 10% potrebbe avere un effetto, stando agli esperti in materia. La verità è che con una crescita inferiore a quella spaventosa degli scorsi anni, molte aziende cinesi traballano e un’eventuale perdita massiccia  di posti di lavoro potrebbe generare disordine nella società costruita dal Comitato Centrale del partito unico cinese. Una moneta più debole fa contento il FMI, agevolando la positiva riuscita dell’impegno diplomatico per l’acceso al salotto buono della finanza e aiuta la competitività delle imprese. Ai danni del dollaro USA e della ripresa globale dopo la crisi del 2008 o in aiuto alle potentissime lobby USA (con i pericolosissimi produttori di petrolio in testa, gli stessi che hanno ottenuto la guerra in Iraq) che vorrebbero un biglietto verde più debole per competere meglio e sopratutto per guadagnare sempre di più?

Dagli Stati Uniti strillano per l’intervento a gamba tesa e tutti i media statunitensi, nei ritagli di spazio lasciati dai commenti sulle estenuanti esternazioni quotidiane di Donald Trump, parlano di scorrettezza cinese contro la libera competizione internazionale, anticipando come l’incontro bilaterale del premier cinese con Obama, a settembre, assuma caratteristiche sempre più importanti per il futuro. La sorpresa è stata grande e la reazione immediata dei mercati è stata caratterizzata dal panico, con gli indici di tutto il mondo in profondo rosso. Troppe le implicazioni della doppia svalutazione; dalle materie prime, già deboli per la traballante economia mondiale, al conto economico dello Stato Americano, alla sostanziosa perdita di valore di aziende come Apple, che hanno puntato grosso sulla Cina. La paura di una rinnovata instabilità ha infine colpito anche la valuta USA che, invece di essere sempre più forte, ha perso valore nei confronti dell’euro, visto da molti investitori come temporaneo rifugio, in attesa che la calura estiva lasci il posto a volumi di scambio normali sui mercati e la FED metta in pratica l’annunciato rialzo dei tassi nel mese di settembre.

Nei prossimi giorni le altre puntate, ma si sente distintamente il fetore di una crisi già vissuta, che si credeva passata.

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Apple, il mercato e la rivolta popolare globale

Prendete il valore di tutte le società quotate sul listino di Madrid (599 miliardi di dollari), sommatele a tutte le società quotate nella Borsa di Atene (36 miliardi di dollari). Scoprirete che il totale non è sufficiente per raggiungere la capitalizzazione di Apple.

Quello in cui viviamo è il mondo dove un’azione della società cofondata da Steve Jobs adesso vale 701 dollari. Valore che moltiplicato per il totale del numero di azioni emesse dalla società di Cupertino porta la capitalizzazione di Borsa della Mela a 657,9 miliardi di dollari (circa €503 miliardi al cambio a 1,3 dollari). Molto più dei 580 miliardi di dollari di Piazza Affari. E circa sei volte i 115 miliardi della Borsa di Dublino, oltre 10 volte il listino del Portogallo (62).

Questi dati (fonte Sole24 Ore) sono inquietanti perchè dimostrano quanto la globalizzazione abbia creato aziende globali dalle dimensioni gigantesche, con fatturati e capitalizzazioni superiori alla maggior parte degli Stati del pianeta. Queste aziende (per carità nulla contro Apple – anzi… – la cito solo come esempio) hanno i capitali necessari per costringere gli Stati a adottare  misure a loro favorevoli, indirizzandone le economie attraverso “il mercato”. Non ci sono prove che lo facciano, individualmente o come lobby, ma i recenti esempi dettati dalla crisi finanziaria fanno pensare che il cosiddetto “mercato lo faccia eccome, prendendo in ostaggio le democrazie, asservendole alla logica del profitto.

Quello stesso mercato che poi penalizza l’azione della Apple (visto che li abbiamo usati come esempio con loro dobbiamo continuare per arrivare al punto, ma potremo fare lo stesso discorso per mille altri brand) perché ha venduto “solo” 5 milioni di iPhone 5, mentre gli analisti avevano previsto arrivassero a 6… Capite la logica di tutto questo? Il “mercato” domina il mondo, scommettendo sul futuro di aziende e interi Paesi, dando i “voti” a come si comportano le popolazioni del pianeta, punendole se non sia adattano ai criteri scelti (vedi Grecia…), totalmente disinteressate dai risvolti sociali delle loro scelte, dalla distruzione culturale che stanno provocando e della miseria che portano con loro.

Ma chi è “il mercato? Sono proprio le aziende di cui sopra: organizzazioni megalitiche con disponibilità economiche straordinarie e interessi globali. Le organizzazioni internazionali non hanno il potere o la giurisdizione per contrastarne i voleri, ma abbiamo per fortuna uno strumento che li può contrastare e, se necessario, colpire (come dimostra il tentativo di controllo attraverso la regolamentazione che cercano di attuare in tutti i modi): internet.

Così mentre la gente fa la fila per compare nuovi iPhone 5, ci sono altri che organizzano in rete la protesta, nel tentativo di riportare gli esseri umani, con i loro bisogni e i loro diritti inalienabili al centro della nostra civiltà, liberando la democrazia dalla schiavitù in cui è costretta. Nonostante il blackout totale che è stato deciso dai media  ufficiali che trattano delle tette della prossima Regina inglese o del povero calunniatore professionista che viene condannato dai giudici cattivi, nel patetico tentativo di distrarre l’opinione pubblica, la gente si organizza e lotta contro la tirannia in tutto il mondo: dal Cile alla Grecia, alla Spagna, il Portogallo, il Canada e gli USA. Teniamo le orecchie dritte: la rivoluzione non sarà trasmessa in televisione.

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una punizione esemplare per il video blasfemo anti-islam

Spero sinceramente che venga contestato quantomeno l’omicidio colposo al produttore del video pubblicato sulla rete che ha dato il pretesto all’ala violenta del movimento islamico per scatenare tanta rabbia contro gli USA e l’Occidente tutto. Non solo per la morte dell’Ambasciatore USA e di tre soldati nell’attacco dell’Ambasciata USA a Bengasi, ma anche per i morti che la protesta violenta ha causato in Tunisia, in Egitto, Yemen, Sudan, Somalia, Pakistan, Iraq, Afghanistan e in molti latri Paesi musulmani in tutto il mondo.

E’ il minimo che ci si può attendere da un gesto così idiota e allo stesso tempo pericolosamente crimimoso. Non ci si può nascondere dietro la libertà di parola, quando si ledono i diritti alla libertà religiosa di tanti altri, non solo per il vilipendio al credo musulmano su cui è centrato quel video “disgustoso” (per usare le parole di Obama), ma anche perchè l’incitazione all’odio è un’assunzione implicita delle conseguenze che questo può portare.

Farebbero quindi bene Google e Youtube a togliere il video dalla visione del mondo e non solo dei Paesi cosiddetti “sensibili”, perchè di fede musulmana, come ha fatto, su pressione del governo statunitense.

Tuttavia, nel giudicare gli autori del video, sarebbe importante considerare anche il danno che questa propaganda anti-islam porta alla pace in quelle fragilissime democrazie che si sino formate dalla Primavera Araba, che vivono un equilibrio instabile tra movimenti popolari favorevoli all’islamizzazione dello Stato e quelli che si impegnano a difendere il laicismo politico. Per non parlare dell’opportunità, quantomeno propagandistica, che viene offerta al terrorismo internazionale,contro il quale vengono investiti tanti soldi e tante vite vengono immolate, aumentando il livello di pericolo della convivenza planetaria.

Spero vivamente che la Giustizia americana impartisca una lezione esemplare, che serva di monito per il futuro, facendo capire a certi idioti affascinati dal potere della libertà di cui godono non  gli conferisce il diritto di mettere a repentaglio quella altrui.

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perchè Assange ha scelto l’Ecuador

Il 3 agosto, con un anticipo rispetto alla scadenza di 16 mesi, la presidente della Repubblica Argentina, Cristina Kirchner, si presenta alla sede di Manhattan del FMI con il suo ministro dell’economia e il ministro degli esteri ecuadoriano Patino, in rappresentanza di “Alba” (acronimo che sta per Alianza Laburista Bolivariana America), l’unione economica tra Ecuador, Colombia e Venezuela. La Kirchner si fa fotografare e riprendere dalle televisioni con un gigantesco cartellone che mostra un assegno di 12 miliardi di euro intestato al FMI con scadenza 31 dicembre 2013, che il governo argentino ha versato poche ore prima. “Con questa tranche, l’Argentina ha dimostrato di essere solvibile, di essere una nazione responsabile, attendibile e affidabile per chiunque voglia investire i propri soldi. Nel 2003 andammo in default per 112 miliardi di dollari, ma ci rifiutammo di chiedere la cancellazione del debito: scegliemmo la dichiarazione ufficiale di bancarotta e chiedemmo dieci anni di tempo per restituire i soldi a tutti, compresi gli interessi. Per dieci, lunghi anni, abbiamo vissuto nel limbo. Per dieci, lunghi anni, abbiamo protestato, contestato e combattuto contro le decisioni del FMI che voleva imporci misure restrittive di rigore economico sostenendo che fossero l’unica strada. Noi abbiamo seguito una strada opposta: quella del keynesismo basato sul bilancio sociale, sul benessere equo sostenibile e sugli investimenti in infrastrutture, ricerca, innovazione, investendo invece di tagliare. Abbiamo risolto i nostri problemi. Ci siamo ripresi e siamo in grado di saldare l’ultima tranche con 16 mesi di anticipo. Le idee del FMI e della Banca Mondiale sono idee errate, sbagliate. Lo erano allora, lo sono ancor di più oggi. Chi vuole operare, imprendere, creare lavoro e ricchezza, è benvenuto in Argentina: siamo una nazione che ha dimostrato di essere solvibile, quindi pretendiamo rispetto e fedeltà alle norme e alle regole, da parte di tutti, dato che abbiamo dimostrato, noi per primi, di rispettare i dispositivi del diritto internazionale.”. Subito dopo la Kirchner ha presentato una denuncia formale contro la Gran Bretagna e gli Usa al WTO, coinvolgendo il FMI grazie ai file messi a disposizione da Wikileaks, cioè Assange. L’Argentina ha saldato i debiti, ma adesso vuole i danni. Con gli interessi composti. “Volevano questo, bene, l’hanno ottenuto. Adesso che paghino”. E’ una lotta tra la Kirchner e la Lagarde. Le due Cristine duellano da un anno impietosamente. Grazie ad Assange, dato che il suo gruppo ha tutte le trascrizioni di diverse conversazioni in diverse cancellerie del globo, che coinvolgono gli Usa, la Gran Bretagna, la Francia, l’Italia, la Germania, il Vaticano, dove l’economia la fa da padrone. Osama Bin Laden è stato mandato in soffitta e sostituito da John Maynard Keynes. Lui è diventato il nemico pubblico numero uno delle grandi potenze; in queste lunghe conversazioni si parla di come mettere in ginocchio le economie sudamericane, come portar via le loro risorse energetiche, come impedir loro di riprendersi e crescere, come impedire ai governi di far passare i piani economici keynesiani applicando invece i dettami del FMI il cui unico scopo consiste nel praticare una politica neo-colonialista a vantaggio soprattutto di Spagna, Italia e Germania, con capitali inglesi. Gran parte dei file sono già resi pubblici su internet. Gran parte dei file sono offerti da Assange all’ambasciatore in Gran Bretagna dell’Ecuador, la prima nazione del continente americano, e unica nazione nel mondo occidentale dal 1948, ad aver applicato il concetto di “debito immorale” ovvero “il rifiuto politico e tecnico di saldare alla comunità internazionale i debiti consolidati dello Stato perché ottenuti dai precedenti governi attraverso la corruzione, la violazione dello Stato di Diritto, la violazione di norme costituzionali”.

Il 12 dicembre del 2008, il neo presidente del governo dell’Ecuador Rafael Correa (Pil di 50 miliardi di euro, circa 30 volte meno dell’Italia) dichiara in diretta televisiva in tutto il continente americano (l’Europa non ha mai trasmesso neppure un fotogramma e difficilmente si trova nella rete europea materiale visivo) di “aver deciso di cancellare il debito nazionale considerandolo immondo, perché immorale; hanno alterato la costituzione per opprimere il popolo raccontando il falso. Hanno fatto credere che ciò chè è Legge, cioè legittimo, è giusto. Non è così: da oggi in terra d’Ecuador vale il nuovo principio costituzionale per cui ciò che è giusto per la collettività allora diventa legittimo”. Cifra del debito: 11 miliardi di euro. Il FMI fa cancellare l’Ecuador dal nòvero delle nazioni civili: non avrà mai più aiuti di nessun genere da nessuno “Il paese va isolato” dichiaraDominique Strauss Kahn, allora segretario del FMI. Il Paese è in ginocchio. Il giorno dopo, Hugo Chavez annuncia che darà il proprio contributo con petrolio e gas gratis all’Ecuador per dieci anni. Quattro ore più tardi, il presidente Lula annuncia in televisione che darà gratis 100 tonnellate al giorno di grano, riso, soya e frutta per nutrire la popolazione, finchè la nazione non si sarà ripresa. La sera, l’Argentina annuncia che darà il 3% della propria produzione di carne bovina di prima scelta gratis all’Ecuador per garantire la quantità di proteine per la popolazione. Il mattino dopo, in Bolivia, Evo Morales annuncia di aver legalizzato la cocaina considerandola produzione nazionale e bene collettivo. Tassa i produttori di foglie di coca e offre all’Ecuador un prestito di 5 miliardi di euro a tasso zero restituibile in dieci anni in 120 rate. Due giorni dopo, l’Ecuador denuncia la United Fruit Company e la Del Monte & Associates per “schiavismo e crimini contro l’umanità”, nazionalizza l’industria agricola delle banane (l’Ecuador è il primo produttore al mondo) e lancia un piano nazionale di investimento di agricoltura biologica ecologica pura. Dieci giorni dopo, i verdi bavaresi, i verdi dello Schleswig Holstein, in Italia la Conad, e in Danimarca la Haagen Daaz, si dichiarano disponibili a firmare subito contratti decennali di acquisto della produzione di banane attraverso regolari tratte finanziarie in euro che possono essere scontate subito alla borsa delle merci di Chicago.
Il 20 dicembre del 2008, facendosi carico della protesta della United Fruit Company, il presidente George Bush dichiara “nulla e criminale la decisione dell’Ecuador” annunciando la richiesta di espulsione del paese dall’Onu: “siamo pronti anche a una opzione militare per salvaguardare gli interessi statunitensi”. Il mattino dopo, il potente studio legale diNew York Goldberg & Goldberg presenta una memoria difensiva sostenendo che c’è un precedente legale. Sei ore dopo, gli Usa si arrendono e impongono alla comunità internazionale l’accettazione e la legittimità del concetto di “debito immorale”. La United Fruit company viene provata come “multinazionale che pratica sistematicamente la corruzione politica” e condannata a pagare danni per 6 miliardi di euro. Da notare che il “precedente legale” (tuttora ignoto a gran parte degli europei) è datato 4 gennaio 2003 a firma George Bush. E’ accaduto in Iraq che in quel momento risultava “tecnicamente” possedimento americano in quanto occupato dai marines con governo provvisorio non ancora riconosciuto dall’Onu. Saddam Hussein aveva lasciato debiti per 250 miliardi di euro (di cui 40 miliardi di euro nei confronti dell’Italia grazie alle manovre di Taraq Aziz, vice di Hussein e uomo dell’Opus Dei fedele al Vaticano) che gli Usa cancellano applicando il concetto di “debito immorale” e aprendo la strada a un precedente storico. Gli avvocati newyorchesi dell’Ecuador offrono al governo americano una scelta: o accettano e stanno zitti oppure, se si annulla la decisione dell’Ecuador, allora si annulla anche quella dell’Iraq e il tesoro Usa deve pagare subito i 250 miliardi di euro a tutti compresi gli interessi composti per quattro anni. Obama, non ancora insediato, ma già eletto, impone a Bush di gettare la spugna. La solida parcella degli avvocati newyorchesi viene pagata dal governo brasiliano.
Nasce allora il Sudamerica moderno. E cresce e si diffonde il mito di Rafael Correa, presidente eletto dell’Ecuador. Non un contadino indio come Morales, un sindacalista come Lula, un operaio degli altiforni come Chavez. Tutt’altra pasta. Proveniente da una famiglia dell’alta borghesia caraibica, è un intellettuale cattolico. Laureato in economia e pianificazione economica a Harvard, cattolico credente e molto osservante, si auto-definisce “cristiano-socialista come Gesù Cristo, sempre schierato dalla parte di chi ha bisogno e soffre”. Il suo primo atto ufficiale consiste nel congelare tutti i conti correnti dello Ior nelle banche cattoliche di Quito e dirottarli in un programma di welfare sociale per i ceti più disagiati. Fa arrestare l’intera classe politica del precedente governo che viene sottoposta a regolare processo. Finiscono tutti in carcere, media di dieci anni a testa con il massimo rigore. Beni confiscati, proprietà nazionalizzate e ridistribuite in cooperative agricole ecologiche. Invia una lettera a papa Ratzinger dove si dichiara “sempre umile servo di Sua Illuminata Santità” dove chiede ufficialmente che il Vaticano invii in Ecuador soltanto “religiosi dotati di profonda spiritualità e desiderosi di confortare i bisognosi evitando gli affaristi che finirebbero sotto il rigore della Legge degli uomini”. Tutto ciò lo si può raccontare oggi, grazie alla bella pensata del Foreign Office, andato nel pallone. In tutto il pianeta si parla di Rafael Correa, dell’Ecuador, del debito immorale, del nuovo Sudamerica che ha detto no al colonialismo e alla servitù alle multinazionali europee e statunitensi. In Italia lo faccio io sperando di essere soltanto uno dei tanti.

Questo, per spiegare “perché l’Ecuador” (…) e perchè Jules Assange ha scelto di rifugiarsi nell’ambasciata dell’Ecuador. Il colpo decisivo viene dato da una notizia esplosiva resa pubblica (non a caso) il 4 agosto del 2012. “Jules Assange ha firmato il contratto di delega con il magistrato spagnolo Garzòn che ne rappresenta i diritti legali a tutti gli effetti in ogni nazione del globo”. Chi è Garzòn? E’ il nemico pubblico numero uno della criminalità organizzata. E’ il nemico pubblico numero uno dell’Opus Dei (…), che ha già fatto sapere che il suo studio è pronto a denunciare diversi capi di stato occidentali al tribunale dei diritti civili con sede all’Aja. L’accusa sarà “crimini contro l’umanità, crimini contro la dignità della persona”. La battaglia è dunque aperta. E sarà decisiva soprattutto per il futuro della libertà in Rete. In Usa non fanno mistero del fatto che lo vogliono morto. Anche gli inglesi. Ma hanno non pochi guai perché, nel frattempo, nonostante sia abbastanza paranoico (e ne ha ben donde) Assange ha provveduto a tirar su un gruppo planetario che si occupa di contro-informazione (vera non quella italiana). I suoi esponenti sono anonimi. Nessuno sa chi siano. Non hanno un sito identificato. Semplicemente immettono in rete dati, notizie, informazioni, eventi. Poi, chi vuole sapere sa dove cercare e chi vuole capire capisce. Quando la temperatura si alza, va da sé, il tutto viene in superficie. E allora si balla tutti. In Sudamerica, oggi, la chiamano “British dance”. Speriamo soltanto che non abbia seguiti dolorosi o sanguinosi.

Stralci da un articolo di Sergio Cori Modigliani, scrittore e blogger, pubblicato sul blog di Beppe Grillo

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le prime foto da Marte

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Noam Chomsky e Bob Kennedy sulla crisi

Dopo lo schiaffone rifilato dagli USA all’Europa (e alla Merkel in particolare) sulla gestione della paurosa crisi finanziaria che sta riducendo tutti sul lastrico, le concessioni della Merkel che riscopre la necessità di maggiori poteri a Bruxelles (come sapevamo tutti…) e la risposta stizzita del vecchio continente che ricorda agli USA che la crisi non è nata in Europa, mi sembra doveroso sottoporvi due filmati.

Il primo è una parte di un discorso tenuto da Noam Chomski, il filosofo statunitense di statura mondiale, sull’effettiva realtà democratica negli USA:

e il secondo è un meraviglioso discorso di Robert Kennedy, che evidenzia le radici profonde del problema che stiamo vivendo nel mondo.

I suoi punti sono di un’attualità sconvolgente.

A voi le conclusioni

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la morte di Bin Laden

Dopo cinque giorni dall’annuncio ufficiale da parte del Presidente degli Stati Uniti, Al Qaida ha diffuso un messaggio, ripreso prima da Al Jazeera e poi da tutti i media mondiali, che conferma la morte di Osama Bin Laden, spazzando via i dubbi, le illazioni e le menzogne a cui abbiamo assistito in questi giorni. Eccone il testo integrale:

“Se gli americani sono stati in grado di uccidere Osama, non c’è nulla di cui vergognarsi, ma gli americani sapranno con i loro media, i loro agenti, il loro equipaggiamento, uccidere ciò a cui lo sceicco Osama ha dedicato la sua vita? Confermiamo che il sangue dello sceicco combattente Osama bin Laden non è stato versato invano e che sarà una maledizione che perseguiterà gli americani ed i loro agenti, all’interno e e fuori dal loro paese. Continueremo sulla strada della jihad, tracciata dal nostro leader, lo sceicco Osama, senza esitazioni e riluttanza. Non ci discosteremo da questo obiettivo fino alla vittoria o alla morte. Come previsto dal giuramento di bin Laden, l’America e coloro che vivono in America non potranno mai essere sicuri, finché non lo sarà il nostro popolo in Palestina. I soldati dell’Islam continueranno, in gruppo e individualmente, senza tregua la pianificazione della loro lotta. Il popolo musulmano del Pakistan, sul cui suolo è stato ucciso lo sceicco Osama, alla rivolta per lavare l’onta che gli è stata inflitta da una banda di traditori e ladri, che hanno venduto tutto al nemico. I pakistani reagiscano con la forza per pulire il loro paese dagli americani che hanno diffuso la corruzione. Lo sceicco ha rifiutato di lasciare questo mondo prima di condividere con la nazione islamica la gioia suscitata dalle rivolte di fronte all’ingiustizia. Per questo una settimana prima della sua morte ha registrato un messaggio che contiene complimenti e consigli e noi lo trasmetteremo presto”.

Mentre comincia quindi l’attesa per il messaggio “postumo” di Osama Bin Laden, il messaggio diffuso dai suoi fedeli ha l’evidente scopo di aizzare le popolazioni musulmane dal Pakistan al Mediterraneo, ma tradisce una debolezza che forse mai prima si era avvertita.

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la figlia del Che contro l’embargo

Ecco l’appello di Aleida Guevara, figlia del “Che“perchè l’embargo imposto dagli USA 48 ammi fa a Cuba, sia finalmente abolito. Un desiderio per il 2011? Eccone uno che condivido pienamente:

“Noi non chiediamo niente in cambio di ciò che facciamo. Abbiamo ricevuto molta solidarietà da parte del popolo italiano. Forse uno dei movimenti più forti di solidarietà con Cuba è proprio quello Italiano. Il punto è far conoscere a tutti la realtà che viviamo. Sfortunatamente l’informazione è molto carente e raggiunge la gente in modo profondamente distorto. Per questo è molto importante che si sappia che noi potremmo fare molto di più, potremmo essere ancor più solidali se ci togliessero l’embargo economico.
Il modo in cui il popolo cubano sta resistendo a un embargo brutale da oltre 48 anni è unico nella Storia dell’umanità. Si parla dell’embargo, ma non si sa come si vive a causa dell’embargo. Un semplice esempio relativo a un gruppo di bambini cubani affetti da leucemia. Attraverso un’organizzazione di solidarietà svizzera di nome “mediCuba“, riesce ad ottenere la materia prima e produce i farmaci citostatici. Possiamo sintetizzarli. Tuttavia non disponiamo dei medicinali per contrastare gli effetti secondari dei citostatici. Per molto tempo abbiamo avuto bambini leucemici che vomitavano venti volte al giorno perché non potevamo somministrare loro il farmaco richiesto. Questo è solo uno degli effetti dell’embargo. Il farmaco in questione è un brevetto statunitense. L’Europa può sintetizzarlo, ogni impresa farmaceutica può produrlo in Europa, ma non ce lo può vendere. Se un’impresa ce lo vende, gli Stati Uniti impongono sanzioni: ritira il capitale americano eventualmente investito o vieta l’esportazione dei prodotti dell’azienda verso il mercato statunitense. Si tratta di una lotta impari dal momento che a Cuba siamo solo 11 milioni, mentre negli Stati Uniti vi sono 400 milioni di potenziali clienti.
Il problema è che abbiamo una forte necessità di reperire i farmaci e disponiamo del denaro per comprarli, non stiamo elemosinando niente. Stiamo chiedendo il diritto ad acquistare farmaci come qualsiasi altro Paese del mondo. Questo ci viene impedito dall’embargo per ogni risvolto della nostra economia. Immaginate se riusciamo a prestare servizi sanitari a quanti lo necessitano nonostante l’embargo, quanto potremmo fare di più senza l’embargo. La questione è semplicemente questa: un’informazione adeguata alle persone nel mondo perché portino la loro solidarietà a Cuba e esercitino pressione sul governo statunitense affinché sia eliminato questo embargo criminale.”

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Assange: ricercato vivo o morto

$ 3,511,674,000. Ecco quanto è costato a Bank of America un semplice sussurro di Julian Assange, secondo AffariItaliani: il 3,18% dell’intera capitalizzazione della banca che nella seduta di Wall Street di ieri (martedì 30 novembre) ha perso quei quattrini, solo perchè Assange ha detto in una intervista a Forbes che nei suoi piani c’era di rilasciare, a partire dal 2011 una serie di files comprovanti le pratiche poco etiche di una delle maggiori banche americane. Files che provenivano direttamente dall’hard disk di un funzionario di livello di tale banca. Siccome la rete ha memoria e non perdona, subito qualcuno si è ricordato che in una intervista precedente lo stesso Assange aveva dichiarato di essere in possesso di ben 5 gigabyte di file riguardanti Bank of America. Da qui la corsa ieri degli operatori finanziari a vendere il titolo. E questa è la dimostrazione, semmai ce ne fosse stato ancora bisogno del potere che ha raggiunto Wikileaks.

Se qualcuno aveva ancora dei dubbi sul fatto che Assange avesse davvero in mano del materiale così compromettente da mettere a rischio lo stato più potente della terra, ebbene ora quel dubbio se lo può togliere. Abbiamo già sotto gli occhi la caporetto diplomatica globale che si sta delineando in questi giorni, cioè da quando Wikileaks ha cominciato a pubblicare i primi (di tanti non ancora pubblicati) dei cablogrammi diplomatici ottenuti chissà come dalla rete segreta SIPRNET in uso ai dipartimenti miltari e di stato americani.E’ bastata la pubblicazione di pochi di essi per scatenare un putiferio mondiale: chissà cosa succederà quando nei giorni a venire  verranno pubblicati, sempre a tranches, il resto dei cablogrammi.

La partita in realtà era cominciata nei mesi scorsi con la pubblicazione dei documenti relativi alla guerra in Afghanistan, che misero in serio imbarazzo gli USA, costretti a far fronte allo sbugiardamento pubblico dei dati sino ad allora da loro comunicati sui risultati dell’offensiva contro i Talebani, per poi proseguire con la pubblicazione di un video relativo all’uccisione accidentale di giornalisti in Iraq da parte di un elicottero Apache.

In tutto il mondo, ma negli Stati Uniti in particolare la gente è spaccata a metà: c’è chi vuole eleggere Assange come l’uomo dell’anno e chi contemporaneamente scrive editoriali su giornali chiedendosi il perchè il governo USA non ne abbia ancora ordinato l’esecuzione extra-giudiziale. Hillary Clinton, come mostrato dai documenti pubblicati da Assange, da un lato ha ordinato ai suoi diplomatici di trasformarsi in emissari del KGB dei tempi peggiori spiando i rappresentanti dell’ONU, mentre dall’altro oggi sta cercando il modo, con l’aiuto di parecchi senatori, di trovare il modo di accusare Assange… di spionaggio. Che facciatosta!

Qualcuno fortunatamente ribatte riportando la memoria ai tempi di Nixon quando il New York Times pubblicò dei documenti riservati relativi alla questione del Vietnam, ottenuti illegalmente da un funzionario del Pentagono. Nixon cercò di incriminare sia il giornale che la sua fonte ma alla fine la Corte Suprema riconobbe che l’appello al primo emendamendo da parte dei difendenti aveva titolo, perchè la costituzione garantisce la libertà di espressione. Anche quando questa nuoce (come successe effettivamente) agli interessi del proprio governo. Chissa che dagli USA non arrivi a tutto il mondo un’altra lezione di democrazia…

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Le scottanti verità di Wikileaks

“I documenti che stiamo per pubblicare riguardano essenzialmente tutta le maggiori questioni in ogni Paese del mondo”. Parola di Julian Assange, fondatore di Wikileaks, che aggiunge: “Nell’ultimo mese ho speso tutte le mie energie per preparare la pubblicazione della storia diplomatica degli Usa e abbiamo visto come gli Stati Uniti hanno cercato di disarmare i possibili effetti che questi file avranno”.

In attesa delle 22:30, ora in cui New York Times, da El Pais, da Le Monde e il settimanale tedesco Der Spiegel pubblicheranno assieme a Wikileaks una montagna di documenti diplomatici riservati: per essere precisi sono 260mila documenti, nessuno dei quali classificato come “top secret”. La metà sarebbe senza livello di segretezza, il 40,5% “confidenziali”, circa 15.652 quelli “segreti”, e solo il 5% riguarderebbe l’Europa. “Cablogrammi diplomatici” inviati al Dipartimento di Stato dalle ambasciate, dai consolati e dalle rappresentanze diplomatiche americane in tutto il mondo, oltre a 8mila direttive del ministero degli Esteri Usa alle sedi diplomatiche in tutto il mondo.

Sarebbero 4.330 i documenti “esplosivi”: tanti, sufficienti a scatenare un inferno diplomatico. Il Dipartimento di Stato americano ha dichiarato di attendersi “tensioni nelle relazioni diplomatiche”. “Ci prepariamo allo scenario peggiore” ha ammesso il portavoce Philip Crowley, confermando che gli Usa da giorni sono al lavoro per avvisare direttamente i diversi Paesi con cui sono in contatto. Il capo degli Stati Maggiori delle Forze armate, Mike Mullen, in un’intervista alla Cnn ha rivolto un appello ai responsabili del sito chiedendo che si astengano da un’iniziativa «molto, molto pericolosa».

Mentre impazzano le anticipazioni, che vedremo vere o false tra qualche ora, sui loschi affari di Putin, il coinvolgimento della Turchia con i taleban, il supporto USA ai curdi, le offese del governo Bush a Mandela che condannava la guerra in Iraq, e gli affari di Silvio Berlusconi, non si può non registrare il grande potere che Wikileaks ha dimostrato di avere, sia nell’ottenere i documenti che nell’imporne la pubblicazione, senza che nessuno abbia la forza di impedirlo; dal Presidente degli USA ai capi degli stati coinvolti. E’ una sconfitta storica per i servizi segreti americani che danno spaventosi esempi planetari di inefficienza fin dalla tragedia dell’11 settembre 2001, ma è anche un segnale di fondamentale importanza per la libertà di stampa che grazie alle nuove tecnologie può ancora esercitare un potere globale di controllo e informazione sulla società.

Varrebbe sinceramente la pena di tralasciare le scomposte reazioni italiane, con il Ministro Frattini che ipotizza e poi nega complotti tesi a destabilizzare l’Italia: “Certamente vi sarà qualcosa che riguarda l’Italia, non necessariamente solo questo governo, si parla di notizie che iniziano nel 2006 quando il governo era un altro – ha messo le mani avanti, per poi aggiungere: “La mia preoccupazione è per l’Italia, non solo una parte politica. Sono certo che tutti dovremmo non commentare notizie frutto di un’attività criminale che è stata perseguita penalmente in almeno dieci paesi del mondo, fra cui gli Stati Uniti d’America. Mi auguro che anche la magistratura italiana valuti l’ipotesi di reato”. Insomma è criminale chi pubblica, non chi commette cose talmente imbarazzanti da temerne la pubblicazione.

Oppure il meraviglioso Cicchitto che dice che “…la stessa nozione di terrorismo viene ad avere una accezione molto più vasta. È evidente che esiste un terrorismo mediatico che per certi aspetti può essere molto più efficace di quello tradizionale. In Italia questo tipo moderno e sofisticato di terrorismo è ormai in atto da qualche tempo ed ha accentuato la sua aggressività in questo periodo”. Insomma: Wikileaks come una nuova forma di terrorismo… apprezzabile invece il chiaro riferimento a Feltri e Belpietro come esempio in Italia del “moderno e sofisticato” tipo di terrorismo.

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Wikileaks fa tremare il mondo

Non vedo l’ora che si sappiano i contenuti dei dossier di Wikileaks, il sito già famoso per aver pubblicato estratti di documenti segreti su Iraq ed Afghanistan, che ha annunciato la prossima pubblicazioni delle comunicazioni fatte dalle ambasciate USA nel mondo a Washington negli ultimi anni.

Il nostro Ministro Frattini trema, tanto da evocare i fantasmi di un possibile complotto contro l’immagine dell’Italia, comparando la vicenda con quella dei rifiuti di Napoli, in un goffo tentativo di anticipare rivelazioni imbarazzanti che riguarderebbero anche il nostro Paese (e non c’è da dubitarne). Per questo aspetto di leggere e ringrazio per l’esistenza del web 2.0, dei Wiki di tutto il mondo, vero baluardo della libertà di comunicazione tra la gente.

In realtà la nuove rivelazioni promesse da Julian Assange, patron di Wikileaks, fanno tremare le diplomazie di mezzo mondo. Il sito che pubblica i documenti riservati prodotti dalle intelligence potrebbe mettere in rete carte “imbarazzanti” per Stati Uniti, Russia e Israele oltre che per i file riguardanti l’Italia ed altri Paesi come UK, Turchia, Danimarca e Norvegia.

Wikileaks non ha specificato quando diffondera’ i nuovi documenti, ma un portavoce del Pentagono, il colonnello Dave Lapan, ha detto di aspettarsi la pubblicazione per questo fine settimana o all’inizio della prossima. In Russia il “Kommersant” ha citato fonti di Wikileaks secondo cui nei cablogrammi dell’ambasciata americana a Mosca ci sarebbero valutazioni sulla situazione politica in Russia e “apprezzamenti poco lusinghieri” su Putin e sulla leadership russai. In Israele, gli Usa hanno discretamente avvertito il premier Benjamin Netanyahu che nei documenti potrebbero esserci valutazioni e informazioni imbarazzanti per i rapporti bilaterali ed una fonte diplomatica turca ha riferito che Washington ha contattato anche le autorita’ di Ankara a proposito di un coinvolgimento della Turchia nei documenti. Le rivelazioni riguarderebbero presunti aiuti dati ai militanti di Al Qaeda in Iraq, ma anche il presunto aiuto degli Usa ai separatisti curdi che combattono contro le truppe del governo di Ankara. (AGI) .

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